martedì 9 febbraio 2010

Orazio, Odi I 9

Vides ut alta stet nive candidum
Soracte nec iam sustineant onus
silvae laborantes geluque
flumina constiterint acuto.
Dissolve frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
deprome quadrimum Sabina,
o Thaliarche, merum diota.
Permitte divis cetera, qui simul
stravere ventos aequore fervido
deproeliantis, nec cupressi
nec veteres agitantur orni.
Quid sit futurum cras fuge quaerere, et
quem Fors dierum cumque dabit, lucro
adpone, nec dulcis amores
sperne puer neque tu choreas,
donec virenti canities abest
morosa. Nunc et campus et areae
lenesque sub noctem susurri
composita repetantur hora,
nunc et latentis proditor intimo
gratus puellae risus ab angulo
pignusque dereptum lacertis
aut digito male pertinaci.

Laggiú si staglia il Soratte, vedi?, con candido
manto di neve. Stremati, faticano i rami
a reggere il peso. Per il gelo tagliente, fiumi e ruscelli si sono rappresi.
Dissolvi il freddo nutrendo la fiamma con larga
provvista di ceppi e senza risparmio
attingi, Taliarco, vino di quattr'anni,
puro, dall'orcio sabino a duplice ansa.
Il resto, rimettilo in mano agli dèi: bastò
che abbattessero i venti in lotta sul gran ribollire
marino, perché d'incanto i cipressi
non piú s'agitassero, e gli orni vetusti.
Che cosa t'attenda in futuro, rinuncia a indagare:
qualunque altro giorno t'aggiunga il destino, tu devi
segnarlo all'attivo. Sei giovane, non disprezzare gli amori gentili, le danze,
fin tanto che il tuo verdeggiare rimane lontano da uggiosa
canizie. Il campo sportivo, adesso, e le piazze,
e sull'imbrunire, all'ora che s'è concordata,
di nuovo uno scambio di dolci sussurri
e il riso che, lieto zampillo, tradisce la giovane
donna appiattata in un angolo oscuro
e, pegno d'amore, il monile, sfilato da un braccio,
da un dito che solo per finta rilutta.

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